Il New York Post e ProPublica smascherano il governo cinese: 3200 direttive e 1800 pro-memoria per manipolare e censurare l’informazione sul coronavirus.
Tutti lo sospettavano, molti lo hanno detto, ma fino a qualche giorno fa non esistevano prove sulla massiccia campagna di controinformazione e censura orchestrata dal governo cinese per impedire al mondo di sapere quello che stava accadendo nella provincia di Wuhan.
Le autorità cinesi hanno perso tempo, non hanno avvisato i cittadini della necessità di proteggersi, non hanno vietato i comportamenti rischiosi e hanno dato modo al virus di diffondersi rapidamente, prima in Cina e poi nel resto del mondo.
La scoperta del coronavirus e i primi tentativi di insabbiare tutto.
Il nuovo coronavirus, quello che poi avremmo conosciuto tutti com Sars-COV2, ha iniziato a circolare alla fine del 2019, ma già a gennaio i contagi erano numerosissimi e gli ospedali in grave difficoltà. Dai social networks trapelava qualche informazione, video rubati di pochi secondi all’interno dei pronto soccorso, o delle file in strada per i medicinali o i generi di prima necessità.
Non si sapeva ancora molto, fino a quando un medico cinese di nome Li Wenliang ha deciso di avvertire alcuni suoi colleghi nei primi giorni di febbraio: nel suo ospedale erano ricoverati sette pazienti in condizioni gravissime, con sintomi riconducibili alla Sars che si era manifestata in Cina già nel 2002.
La conversazione viene intercettata dalle Autorità e il dottor Li è costretto a ritrattare le sue affermazioni e riconoscersi colpevole di aver diffuso false informazioni.
Per il governo cinese la priorità era quella di mettere a tacere i medici e i media, minimizzando i rischi per la salute pubblica e lasciando all’oscuro oltre 11 milioni di persone per evitare il panico interno e l’imbarazzo politico internazionale.
Pochi giorni dopo il medico si è contagiato ed è morto. Questa notizia ha provocato dolore e rabbia che si è immediatamente riversata sui social media e alla quale il governo cinese ha risposto con gli strumenti propri di ogni dittatura: censura e controinformazione.
Obiettivo: sopprimere l’«effetto farfalla».
Secondo il Dott. Edward Lorenz il battito di ali di una farfalla in Brasile può provocare un tornado in Texas. L’esempio serviva a dimostrare la teoria secondo la quale, a lungo andare, variazioni infinitesimali possono produrre effetti importanti e imprevisti se non vengono considerate adeguatamente.
La morte del dottor Li Wenliang erano un battito d’ali di una farfalla che avrebbero potuto produrre effetti catastrofici per l’immagine della Cina. Per questo è stata messa in moto un’operazione impressionante di manipolazione dell’informazione.
Le autorità cinesi si sono preoccupate di sopprimere le notizie scomode e dirigere il racconto della storia, impartendo direttive ai giornali e agli operatori della propaganda locale in maniera incredibilmente puntuale: le testate on line non dovevano emettere notifiche push sulla morte del medico, i social sono stati costretti a rimuovere gli hashtag e gli argomenti in tendenza riconducibili alla scomparsa del dottor Li.
E’ stato schierato anche un vero e proprio esercito di commentatori che, con profili falsi, avevano il compito di distrarre l’opinione pubblica ed evitare danni di immagine al Partito Comunista Cinese, al Governo e alla credibilità del sistema politico.
Nel mondo reale il controllo dell’informazione è stato affidato alle forze di sicurezza che hanno compiuto arresti e sequestri per bloccare le notizie scomode.
Migliaia di documenti ottenuti dagli hacker di CCP Unmasked
L’indagine del New York Post e di ProPublica si basa su più di 5000 documenti forniti da un gruppo di hacker che si fa chiamare CCP Unmasked, nome eloquente per significare l’avversione contro la propaganda dei regimi comunisti.
I files, la cui autenticità è stata verificata, provengono dai server della CAC (Amministrazione Cinese per il Cyberspazio) e della Urun Big Data Services, una società cinese che produce software per monitorare le discussioni in internet e gestire le schiere di commentatori assoldati dal governo.
Dall’analisi di questi documenti emerge chiaramente come gli obiettivi del governo cinese fossero diversi. In particolare:
- Gestire e indirizzare la narrazione degli eventi;
- Eliminare le informazioni più dannose per la Cina;
- Scongiurare episodi di panico;
- Far apparire il virus meno pericoloso di quanto non fosse in realtà;
- Rappresentare falsamente la capacità delle autorità di fronteggiare l’emergenza.
Lo stipendio di un “troll di stato”.
Per un post originale di almeno 400 caratteri si viene pagati 25 dollari. Per aver segnalato un post negativo per la sua rimozione si ricevono 40 centesimi. Per ogni condivisione si guadagna un centesimo.
E’ tutto organizzato alla perfezione: ad ogni cybersoldato viene assegnato un software o un’app che dà la possibilità di monitorare le tendenze online, coordinare le attività di censura e gestire diversi account falsi per pubblicare i commenti. Il software tiene traccia di tutte le attività svolte e tiene il conto di quanto si guadagna.
La formazione avviene attraverso una sorta di videogame: si formano due squadre e vince quella che crea i post più performanti.
In conclusione
Nel momento in cui scrivo queste cose, un brivido gelato mi percorre la schiena. Non credo che altri paesi al mondo siano così organizzati come la Cina.
Un sistema organizzato per mentire e manipolare l’opinione pubblica nazionale e mondiale che ha lavorato bene durante questa epidemia e che potrà essere utilizzato tutte le volte che la dittatura comunista cinese lo vorrà.
Non sappiamo se un’informazione tempestiva e corretta sul coronavirus avrebbe potuto impedire la diffusione dell’epidemia, i milioni di morti, la crisi economica che ci accompagnerà per anni. Quello che sappiamo è che la democrazia si basa sul consenso che, per essere tale, deve potersi formare su informazioni vere.
In questo caso abbiamo assistito alla più grande manipolazione mediatica della storia. Mi auguro che qualcuno presenti il conto alla Cina.
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